giovedì 19 dicembre 2013

Trasferito Lorusso, il detenuto che parlo’ con Riina

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di Savino Percoco - 18 dicembre 2013
Alberto Lorusso, il detenuto a cui Totò Riina (foto) ha espresso le minacce stragiste destinate ai pm legati alla trattativa Stato-Mafia e in sottolineata maniera ad Antonino Di Matteo, è stato trasferito ad altro penitenziario. Il “presunto” boss pugliese era la cosiddetta "dama di compagnia" (nel gergo carcerario) con cui negli ultimi mesi, il capo di Cosa nostra ha trascorso le due ore di socialità giornaliere consentite dal regime carcerario 41 bis. Nei giorni scorsi, su disposizione del Dap, è anche stato interrogato dal procuratore capo di Palermo Messineo, e dal suo aggiunto Teresi.
Ma chi è Alberto Lorusso?
 Appaiono sempre più contrastanti e confusionarie le notizie relative alla sua identità. Da molti è indicato come boss di rilievo della Scu ma, navigando attraverso i motori di ricerca web, ad esclusione delle recenti vicende, pochi sono i cenni che lo riguardano. Eppure è lui l’unico tra i criminali detenuti nel supercarcere di Opera ad aver raccolto le spaventose esternazioni di Riina conquistandosi la sua fiducia.
Secondo quanto si è appreso, il ruolo di Lorusso è ancora sotto esame. I pm di Palermo sospettano che possa trattarsi di un infiltrato dei servizi segreti, posto a contatto con Riina nell'ambito di una strategia ancora oscura. 
Difatti, chi ha sbobinato le intercettazioni, lo descrive come una persona curiosa e conscia di cosa chiede. 
Dopo le confidenze dello scorso giugno, raccolte da un agente penitenziario a cui Riina avrebbe affermato che il suo arresto era il risultato di una collaborazione tra Provenzano e Vito Ciancimino e che la proposta di una trattativa fu avviata dallo Stato, il pm Di Matteo dispose un più severo monitoraggio delle intercettazioni. 
Furono quindi, piazzate delle “cimici” da parte della Dia nel luogo dove il boss era solito appartarsi con Alberto Lorusso, durante l’ora d’aria. 
Sorprende quindi, che il capo di Cosa nostra, composto nell’inflessibile silenzio per oltre vent’anni consapevole delle rigide ispezioni, improvvisamente perda il controllo con un presunto mafioso pugliese privo di mediatica “fama” criminale. Altrettanto sospetto è l’interesse di Riina nei confronti del pool antimafia se consideriamo il carcere a vita ormai definitivo e che l’aggiunta di ergastoli derivanti da nuovi processi poco cambierà al suo curriculum penitenziario. 
Certo non va esclusa la prima tesi, che vede Alberto Lorusso ai vertici della Sacra corona unita. Per meglio comprendere questo percorso, facciamo qualche passo indietro, alla nascita di quella che nell’ordine, viene considerata la quarta mafia italiana. Le origini della Scu sono ancora poco chiare, ma una prima ipotesi, narra che il boss camorrista Raffaele Cutolo, nel 1981 costituì un’organizzazione associata alla mafia campana nel territorio pugliese. Di contro, ne seguì un’altra composta da esponenti locali indispettiti dal suo tentativo di espansione. 
Una seconda ipotesi invece, ritiene che la Scu sia stata fondata dallo ‘ndraghetista Giuseppe Rogoli nel carcere di Trani con il consenso del suo capo bastone Umberto Belloco. A causa del suo stato di detenzione, Antonio Antonica, fu nominato responsabile unico delle attività illecite che si svolgevano nell'area brindisina col compito di nominare anche dei capi zona.
Secondo fonti non sicure, i contrasti tra i due generarono un guerra tra clan in cui perse la vita lo stesso Antonica e nella rifondazione si concordarono dalle modalità di affiliazione più rigide e severe, il cui statuto vide la firma anche del compagno d’aria di Riina. Si presume quindi, che Alberto Lorusso, dal 1987 fosse un potenziale boss di una delle famiglie più rappresentative del brindisino.
Altro fatto curioso a sostegno della prima tesi riguarda il Comune di San Pancrazio Salentino (BR) ove risiede Maria Concetta Riina, figlia del superboss. 
Inoltre, anche Ninetta Bagarella, moglie del capo dei capi, potrebbe raggiungere il paesino del brindisino dove fino agli anni ’90, Alberto Lorusso era considerato al vertice della cosca. 
Coincidenza o segnale di un sodalizio tra la Scu e Cosa nostra?
In attesa che meglio venga chiarita l’identità di Lorusso, sono apprezzabili le affermazioni del Ministro dell’Interno Angelino Alfano, ma è da augurarsi che alle parole seguino celermente i fatti, a cominciare dal “bomb  jammer” ancora non predisposto al pm a rischio vita, Antonino Di Matteo.
Intanto, per venerdì 20 dicembre è prevista a Palermo una manifestazioneprogrammata da cittadini, associazioni e organizzazioni sociali, politiche e sindacali a sostegno del Pm Di Matteo e del pool antimafia.
A tal riguardo, il comitato di presidenza del Csm ha deliberato una delegazione per partecipare alla manifestazione di solidarietà ai pm minacciati. La proposta sarà sottoposta al plenum. In una nota si legge: "Il Comitato di presidenza ha deliberato di proporre al plenum per il prossimo 20 dicembre la visita di una delegazione consiliare guidata dal vicepresidente a Palermo per incontrare i capi degli uffici giudiziari, manifestare la presenza solidale del Csm nei confronti dei magistrati oggetto di intimidazioni e verificare i possibili interventi dell'Organo di governo autonomo a supporto del sereno ed efficiente esercizio della giurisdizione in quel territorio".

giovedì 12 dicembre 2013

Calcio e malavita, il procuratore di Lecce: "La repressione da sola non basta, bisogna cambiare la mentalità

"All'esterno appaiono come benefattori. Danno prestiti a fondo perduto e procurano lavoro. Le vittime di estorsione offrono spontaneamenteregali ai boss e alle loro mogli". Cataldo Motta, procuratore capo di Lecce e nemico numero uno della mafia pugliese, svela il mondo della Sacra Corona Unita in una lunga intervista ad Affaritaliani.it: "In 40 anni si è passati in maniera strisciante dal rifiuto all'indifferenza, dall'accettazione alla condivisione". Se lo Stato non dà lavoro lo si cerca dai clan: "Condannati per mafia trovano spesso posto nelle società di calcio. Lo sport viene usato per due obiettivi: riciclaggio del denaro e consenso sociale". Sul contrasto alla mafia: "Per avere risultati non basta la repressione, serve un cambio di mentalità".Procuratore Motta, qual è il legame tra calcio e malavita?
Il procuratore Cataldo Motta
Noi siamo partiti da un’indicazione che abbiamo avuto di infiltrazioni in alcune società calcistiche del campionato di eccellenza pugliese. Erano coinvolti soggetti già condannati per associazione mafiosa oppure altri soggetti contigui alla criminalità organizzata. Il meccanismo alla base è quello del “dare lavoro”. Abbiamo per esempio rilevato che alcune squadre avevano tra gli steward dei personaggi condannati per associazione mafiosa, magari perché, ahimè, sono quelli che garantiscono meglio l’ordine.

Qual è l’obiettivo dei clan che entrano nel mondo del calcio?

Entrare nel calcio per loro è una scelta molto intelligente. Raggiungono insieme due obiettivi: il riciclaggio del denaro e l’ottenimento del consenso sociale. Da una parte il denaro viene ripulito delle spese della società, come per esempio l’acquisto di calciatori. Dall’altra parte, proprio l’afflusso di soldi e l’acquisto di calciatori migliorano i risultati sportivi e quindi rafforzano il consenso sociale. Le squadre crescono in virtù delle spese di denaro sul cui meccanismo di guadagno è meglio stendere un velo pietoso.

Esiste un legame anche con il mondo degli ultras?

Per quanto riguarda le squadre prese in esame da noi no, anche perché si tratta di calcio minore e le squadre non hanno veri e propri gruppi di tifo organizzato. Il gruppo serio per il quale abbiamo avuto anche la condanna per associazione sovversiva è quello legato all’U.S. Lecce.

È un legame indissolubile quello tra calcio, soprattutto minore, e la criminalità organizzata?

È molto difficile da recidere anche perché per alcune realtà alla base c’è una motivazione direi storica. A Galatina, per esempio, uno dei soci fondatori della squadra è uno dei fratelli Coluccia, condannati più volte per traffico di stupefacenti.
A livello più generale quanto è ancora forte il consenso sociale della criminalità organizzata?

Da noi purtroppo non è ancora forte, ma va diventando forte. La Sacra Corona Unita non aveva mai avuto radicamento sul territorio. Le caratteristiche dell’organizzazione mafiosa salentina sono sempre state diverse da quelle di camorra, ‘ndrangheta e Cosa Nostra perché è stata diversa la sua origine. In Sicilia, Calabria e Campania la mafia è nata con un consenso di base della gente che vedeva queste organizzazioni come un’alternativa allo Stato vessatore. Da noi è stata invece un’iniziativa criminale che la gente ha visto sin dall’inizio come un’associazione criminale che compiva delitti e altre violenze. La Sacra Corona Unita è mafia non nell’accezione sociologica del termine ma lo è perché corrisponde ai requisiti dell’articolo 416 bis del codice penale. È mafia perché ha realizzato le condizioni mafiose di omertà, terrore e di vincolo associativo. Già all’epoca della mia requisitoria del primo maxi processo che serviva a riconoscere la mafiosità dell’organizzazione dissi che bisognava intervenire sistematicamente perché altrimenti col tempo il radicamento ci sarebbe stato. Purtroppo sono stato facile profeta. Nei 40 anni in cui sono qua a Lecce si è passati lentamente e in maniera strisciante da un rifiuto all’indifferenza, poi alla tolleranza fino all’accettazione e infine al consenso.

La crisi economica non aiuta però a recidere questo consenso…

Tutt’altro, con la crisi la situazione è molto peggiorata. Abbiamo visto che, per esempio, c’è stata una tendenza alla delega per la riscossione dei crediti perché naturalmente se lo chiedono appartenenti all’organizzazione mafiosa il recupero di questi crediti questo avviene istantaneamente. Purtroppo si è creata un’accettazione dei metodi violenti con cui è effettuata la riscossione dalla criminalità organizzata. Si è creato consenso anche intorno alle estorsioni. Un importante collaboratore di giustizia dell’area brindisina ci ha raccontato come adesso in alcune realtà territoriali è dalla parte della Sacra Corona Unita, perché i crimini più evidenti si sono interrotti. La criminalità ha capito come tirare dalla propria parte la gente. Omicidi, danneggiamenti con le bombe e incendi sono scomparsi. Stanno seguendo la strategia di Provenzano, la strategia dell’inabissamento. E ora all’esterno appaiono addirittura come benefattori. Danno prestiti a gente in difficoltà, girandogli 100 o 200 euro a fondo perduto senza poi chiedere la restituzione. E poi procurano lavoro. Naturalmente fanno ancora usura su somme più grosse e alla lunga fanno perdere lavoro perché i titolari delle società infiltrate perdono potere e la società diventa a tutti gli effetti mafiosa. Addirittura ci viene segnalato che non hanno nemmeno più bisogno di compiere le estorsioni ma che sono le stesse vittime a offrire spontaneamente denaro. Così magari a fine anno il gioielliere regala il Rolex al boss o un bracciale a sua moglie. È una deriva pericolosissima degli ultimi anni.

Nelle scorse settimane si parla molto del rischio di un possibile ritorno allo stragismo mafioso. Lei ci crede?

Considerando l’esito della strategia di Riina rispetto all’esito di quella di Provenzano credo che per loro sarebbe una follia. Per quanto riguarda la Sacra Corona Unita, qui i boss hanno avuto una serie di problemi interni, si sono fatti guerra per la leadership ma non c’è mai stata una strategia stragista.

Quali sono i rapporti tra Sacra Corona Unita e le altre organizzazioni mafiose?

La Sacra Corona Unita è nata in opposizione alla colonizzazione del Salento da parte della camorra. È stata una reazione all’iniziativa di Raffaele Cutolo che voleva creare la Ncp (Nuova camorra pugliese). L’inizio è stato conflittuale, poi la Scu ha ricevuto la legittimazione dei calabresi. Sono andati avanti allentando le tensioni e ci sono stati vari episodi che hanno stemperato le tensioni, come ad esempio il contrabbando operato congiuntamente in Montenegro dalle diverse organizzazioni. Ora i rapporti sono di buon vicinato.
Tornando al calcio, con quali strumenti si potrebbe riuscire a recidere il legame con la criminalità organizzata?

È particolarmente difficile riuscirci. Credo però che la repressione penale da sola non serva a molto, anzi. Bisognerebbe blindare le società di calcio, magari con una certificazione antimafia o una sorta di autotutela. Ma servirebbe più della prevenzione: ci vorrebbe proprio un’azione culturale sulla mentalità della gente. È la gente che per prima deve ribellarsi alle presenze mafiose nelle società di calcio.

In senso generale quali strumenti servirebbero per il contrasto alla mafia?

Gli strumenti che abbiamo sono abbastanza adeguati. Il problema è che si fa fatica perché per esempio tecnologicamente loro sono molto più avanzati di noi. Internet non si può intercettare e noi facciamo le acrobazie per avere qualche informazione in più. Purtroppo tra i nostri strumenti non ci può essere la sfera di cristallo. Serve prima di tutto la volontà della gente, solo così possiamo sconfiggerli.

E questa volontà non esiste?

Purtroppo è difficile cambiare la mentalità. Però ho speranza. Faccio riferimenti a casi recenti di omicidio che abbiamo risolto grazie alle testimonianze di alcuni ragazzi. Una volta addirittura un minorenne ci ha messo sulla pista giusta. In uno di questi casi avevano ammazzato una persona davanti a moltissima gente durante l’allestimento di una festa di paese. Nessuno aveva visto nulla. Quei ragazzini, anche se i genitori gli dicevano di non parlare, ci hanno dato una grossa mano. Ecco, se ci fossero più casi come questi abbiamo una speranza. Altrimenti, purtroppo, non andremo molto lontani.
di Lorenzo Lamperti
Mercoledì, 11 dicembre 2013 - 12:07:00
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