lunedì 24 marzo 2014

Caso Moro, ex poliziotto: "I servizi protessero la strage delle Br"

Nuove rivelazioni all'Ansa: Enrico Rossi, ex-ispettore di polizia, racconta la sua inchiesta

A disstanza di ben 36 anni dal rapimento di Aldo Moro potrebbe riaprirsi il capitolo sulla strage di via Fani e sul sequestro dell’allora Presidente della Democrazia Cristiana da parte dei terroristi delle Brigate Rosse.
Un caso che, in perfetto ed italico stile, non ha mai smesso di far discutere, in particolare sui tanti punti interrogativi che ancora aleggiano attorno ai fatti di Roma del 1978: dal sequestro alla Camilluccia alla detenzione, dalle trattative con la Banda della Magliana fino all’uccisione dell’uomo politico, un evento storico che ha radicalmente mutato la storia parlamentare e sociale del nostro Paese.
A raccontare nuovi ed inediti risvolti sul caso Moro è l’Ansa, cheha intervistato l’ex ispettore di Polizia, oramai in pensione, Enrico Rossi; l’ispettore racconta quando, era il 2009, una lettera anonima ricevuta da un quotidiano spostava l’attenzione degli inquirenti su un altro elemento presente in via Fani quella mattina: una motocicletta Honda.
La lettera, che sarebbe stata scritta da un’ex agente dei servizi segreti italiani, viene citata dal giornalista Ansa Paolo Cucchiarelli:
“Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente…”
Verificare una lettera anonima di questa portata, che cambierebbe il corso della storia recente d’Italia, diventa una priorità per l’ispettore Enrico Rossi: materiale da prendere con le dovute distanze, vuoi perchè la storia ufficiale (e processuale) racconta ben altro, vuoi perchè adistanza di oltre 30 anni (e con l’autore che, a suo scrivere, dovrebbe essere deceduto) diventa quasi impossibile verificarne l’attendibilità.
E così si crea immediatamente un classico giallo, i cui elementi base ci sono tutti: una lettera anonima post-mortem, le prove scomparse, i processi farseschi, l’indagine di un poliziotto in totale solitudine, lo spettro dei servizi segreti: roba da scheletri nell’armadio che tali devono restare.

Già negli anni ‘80 il boss camorrista Raffaele Cutolo aleggiava lo spettro dei servizi segreti italiani sul caso Moro e, in particolare, proprio sulla strage che portò al suo sequestro in via Fani, alla Camilluccia, dove l’uomo politico viveva. Già un primo riscontro della lettera l’ispettore Rossi lo ebbe nel primo nome: il colonnello del Sismi Camillo Guglielmi, che era in via Fani la mattina del 16 marzo 1978.
L’anonimo forniva anche gli elementi utili a rintracciare il pilota della motocicletta e dal 2011, dopo che misteriosamente la lettera capitò sul tavolo dell’ispettore di Polizia (allora in forze all’antiterrorismo), Rossi cominciò le sue indagini: secondo un testimone ritenuto molto credibile dallo stesso ispettore, l’uomo alla guida della moto quella mattina era a volto scoperto e aveva tratti del viso che ricordavano Eduardo De Filippo.
Poi, durante le indagini, la probabile svolta:
“Non so bene perché ma questa inchiesta trova subito ostacoli. Chiedo di fare riscontri ma non sono accontentato. L’uomo su cui indago ha, regolarmente registrate, due pistole. Una è molto particolare: una Drulov cecoslovacca; pistola da specialisti a canna molto lunga, di precisione. Assomiglia ad una mitraglietta. […] Per non lasciare cadere tutto nel solito nulla predispongo un controllo amministrativo nell’abitazione. L’uomo si è separato legalmente. Parlo con lui al telefono e mi indica dove è la prima pistola, una Beretta, ma nulla mi dice della seconda. Allora l’accertamento amministrativo diventa perquisizione e in cantina, in un armadio, ricordo, trovammo la pistola Drulov poggiata accanto o sopra una copia dell’edizione straordinaria cellofanata de La Repubblica del 16 marzo”. Il titolo era: “Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse”.”
afferma l’ispettore in pensione, che lamenta la mancata autorizzazione alle perizie sulle armi e all’interrogatorio del sospettato, che vive in Toscana. Consegnate le armi alla Digos la situazione sembra “congelarsi”. Dopo qualche tempo, capita l’antifona, Rossi nel 2012 va in pensione e, poco tempo dopo, viene informato della morte del suo sospettato e della distruzione delle armi senza alcuna perizia balistica, come invece aveva chiesto l’ex-ispettore. Scrive l’Ansa, confermando la morte del sospettato e la distruzione delle armi senza previa perizia:
“Il fascicolo che contiene tutta la storia dei due presunti passeggeri della Honda è stato trasferito da Torino a Roma dove è tuttora aperta un’inchiesta della magistratura sul caso Moro.”
Secondo l’agenzia stampa magistratura e Brigate Rosse concordano su un punto: la presenza effettiva della Honda blu in via Fani la mattina dell’attentato. Anzi, c’è qualcosa di più: l’ingegner Alessandro Marini, uno dei testimoni più citati dalla sentenza del primo processo Moro, fu l’unico civile a beccarsi dei proiettili, sparati proprio da quella moto di grossa cilindrata. Interrogato già il 16 marzo 1978 Marini disse che il conducente della moto era un giovane di 20-22 anni, molto magro, con il viso lungo e le guance scavate, che a Marini ricordò “l’immagine dell’attore Edoardo De Filippo”.
La raffica non lo uccise solo per un caso fortuito, ma il passeggero della moto (coperto da passamontagna) scaricò l’intero caricatore, perdendolo in terra. Quel caricatore fu ritrovato ma mai messo a raffronto con i tre mitra delle Br ritrovati poi in seguito, dai quali le sentenze affermano siano partiti i colpi sparati a via Fani quella mattina. Stesso discorso per le perizie balistiche, che tacciono numerosi particolari sui proiettili e sui bossoli.
I brigatisti Moretti e Morucci confermano nel corso dei processi proprio la presenza di una moto“che non era roba nostra”, ma negano ogni contatto con i servizi segreti o la criminalità organizzata che imperversava a Roma in quegli anni. Queste nuove rivelazioni non cozzano completamente con quanto affermato circa un anno fa da Ferdinando Imposimato.
Certo, forse tutto questo non è abbastanza per riaprire il caso Moro: certamente non è abbastanza per urlare al complotto dei servizi. Certo, questo si, è abbastanza per rendersi conto che sul caso Moro di chiarezza non ne è mai stata fatta. Probabilmente in maniera deliberata.

giovedì 13 marzo 2014

CAMORRA: LO MORO (PD), SOLIDARIETA' A GIORNALISTA MINACCIATO PAPPAIANNI

(AGENPARL) - Roma 12 mar - “Ho presentato un'interrogazione al Ministro dell'interno per chiedere che venga prestata protezione al giornalista de L'Espresso, Claudio Pappaianni”. Così la senatrice del Pd Doris Lo Moro in una nota stampa esprime la propria solidarietà al cronista minacciato. “Pappaianni nei suoi articoli ha messo in evidenza i rapporti tra quello che tele visivamente è conosciuto come il “boss delle cerimonie”, Don Antonio Polese e Raffaele Cutolo. Nella sua articolata inchiesta giornalistica Pappaianni scrive del «passato giudiziario imbarazzante del protagonista della trasmissione, il boss dei ricevimenti all'ombra del Vesuvio, Antonio Polese. Tra indagini per commercio di alimenti adulterati e abusi edilizi, fino ai rapporti con la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo»; ricorda, in particolare, che Polese è stato coinvolto nel maxiblitz contro la nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo del 1983, processato e condannato per favoreggiamento; implicato, insieme ad altri soci, nella compravendita del palazzo del principe di Ottaviano, il famigerato "Castello di Cutolo", poi finito nel 1991 tra i beni confiscati dallo Stato alla criminalità organizzata”.
Mercoledì 12 Marzo 2014 18:31 

martedì 11 marzo 2014

Il 'boss delle cerimonie' minaccia il giornalista dell'Espresso

INTIMIDAZIONI

Don Antonio Polese, il patron del locale di Ottaviano reso celebre dal reality sui matrimoni in un'intervista televisiva ha annunciato querele contro il cronista Claudio Pappaianni, colpevole di aver raccontato che su quel locale c'è l'ombra della camorra di Raffaele Cutolo
Don Antonio Polese, il boss delle cerimonie


Don Antonio Polese, il boss delle cerimonie, ha annunciato querele contro chi osa accostare il nome del suo locale di successo al padrino della Nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo. Lo ha fatto durante un'intervista a un'emittente campana (PiùEnne di Avellino).

Alla giornalista ha chiesto di non parlare del boss don Raffaè, ma poi lo ha fatto, credendo che la telecamera fosse spenta. Accusa “l'Espresso” e il nostro giornalista Claudio Pappaianni di scrivere falsità. E lo invita a produrre i verbali di cui parla nell' articolo pubblicato a febbraio scorso . «Se hanno la registrazione che lo dice lui (Cutolo, ndr), sennò la pagano cara perché questa è una cosa gravissima», è la minaccia rivolta a Pappaianni. E aggiunge: «Spenderò quanti soldi è possibile per ottenere...».

Alla cronista della tv locale racconta anche i suoi trascorsi giudiziari. E dice la sua sul Castello di Ottaviano (confiscato a Cutolo): «Ci volevano condannare per associazione a delinquere. Ma io ho sempre creduto nella giustizia e la giustizia è stata fatta per bene: ci hanno dato solo il favoreggiamento, perché era l'unica cosa che a noi ci toccava».

Il cerimoniere diventato famoso grazie al programma su Real Time è ferito dall'inchiesta di Pappaianni. Esclude qualunque ingerenza di Cutolo nella gestione dell'albergo. Anche se ammette che è quello il Palazzo del Festival della canzone napoletana, «è questo qua!», lo stesso cioè di cui parla il padrino della Camorra durante i colloqui in carcere con la nipote. Confermando così quanto scritto nell'inchiesta de l'Espresso.

Polese per difendersi arriva a sostenere che è tutta una montatura, dubita persino dell'esistenza del verbale nel quale sono stati trascritti i dialoghi del capo clan in carcere. Ma i verbali ci sono eccome, e sono allegati alla richiesta di arresto di Luigi Cesaro, il potente senatore di Forza Italia, che ormai da due anni è sul tavolo del giudice delle indagini preliminari. Il pm che l'ha inoltrata attende da quasi mille giorni, tempi biblici. All'interno di quel faldone anche i particolari delle vicenda dell'investimento milionario vantato da don Raffaele Cutolo.

Il boss delle cerimonie conclude l'intervista con la giornalista di PiùEnne con un'altra minaccia di denuncia: «se voi vi permettete di toccare questo argomento avrete la querela, ve lo dico già adesso, subito». Insomma, don Polese non ci sta. E si affida agli avvocati per difendersi nelle aule di tribunale. Intanto, dopo quel «la pagheranno cara», di Polese a Pappaianni è arrivata la solidarietà di tanti esponenti politici.
Su Twitter hanno espresso sostegno al giornalista il ministro della Giustizia Andrea Orlando, Nichi Vendola («solidale con Pappaianni giornalista dalla schiena dritta»), Francesco Nicodemo (Dalla parte di Pappaianni. Avanti» e Pina Picierno (Con Pappaianni e con tutti i giornalisti che continuano a informare e denunciare la camorra»).

I deputati di Sinistra e Libertà Gennaro Migliore e Arturo Scotto hanno invece inviato una nota con la quale esprimono «massima solidarietà nei confronti di Claudio Pappaianni, de “l'Espresso” e di tutti i giornalisti e le giornaliste che ogni giorno rischiano l'incolumità propria e dei propri cari per garantire a tutte e tutti noi il più alto livello di informazione possibile». A sostegno del cronista de “l'Espresso” anche Ossigeno per l'informazione, l'osservatorio guidato da Alberto Spampinato che raccoglie le storie e i numeri dei giornalisti intimiditi.

«Questa vicenda dimostra come in Italia le querele vengono considerate come sostituzione delle smentite o delle lettere di rettifica», osserva Spampinato, che aggiunge: «Sono considerata le uniche risposte possibili al lavoro del giornalista, e nelle ultime settimane abbiamo assistito a vari casi dalla Sicilia al Veneto, tutte vicende che mostrano l'allergia verso chi fa inchiesta giornalistica». Secondo i dati dell'Osservatorio tra il 2011 e il 2013 su 886 intimidazioni, 240 sono querele e richieste di danni pretestuose, senza fondamento. Tanto che sono state archiviate o il cronista è stato prosciolto.