giovedì 11 giugno 2015

Anche il super latitante Scotti, detto o' collier, finisce in cella

Si era sposato con una brasiliana e aveva avuto due figli. Si faceva chiamare Francisco de Castro Visconti, imprenditore di successo con gestione di numerose attività, tra società di servizi e ristoranti.


Era in realtà un boss inserito nella lista dei latitanti più pericolosi: Pasquale Scotti, storico capo della Nuova Camorra Organizzata cutoliana, si nascondeva dal 1984. Una latitanza durata 31 anni interrotta oggi, quando è stato arrestato in Brasile, a mezzogiorno ora locale. 



La prima frase che ha detto quando è stato fermato dalla polizia brasiliana è stata un criptico «Pasquale Scotti è morto nel 1986».
Pasquale Scotti detto o' Collier

Scotti era ricercato dal 1985, per omicidio ed occultamento di cadavere ed altro. Dal 1990 invece sono state diramate le ricerche in campo internazionale, per arresto ai fini dell'estradizione.

Il superlatitante si nascondeva a Recife: ed è lì che gli uomini della Squadra mobile di Napoli, coordinati dai primi dirigenti Fausto Lamparelli e Lucio Vasaturo, lo hanno stanato. Scotti è stato catturato in una panetteria mentre stava comprando i dolci. Dalle foto scattate oggi gli inquirenti non escludono che nel tempo si sia sottoposto a qualche intervento chirurgico di plastica facciale. 

Il suo nome faceva parte dell'elenco dei dieci super-ricercati inseriti nella lista delle «primule rosse» stilato dal ministero dell'Interno. Scotti deve scontare diversi ergastoli per omicidio, estorsione e vari altri reati associativi. Iniziò la propria «carriera» criminale come killer: era uno degli uomini del commando di fuoco della Nco capeggiata da Raffaele Cutolo.

Nel tempo ne fece, di strada, fino a diventare un boss temuto e rispettato. Le indagini tese alla sua cattura non si erano mai interrotte. Ultimamente il fascicolo era coordinato dai sostituti della Direzione distrettuale antiimafia di Napoli Ida Teresi e Marco Del Gaudio. A incastrare Scotti è stata la comparazione delle impronte digitali. 


fonte: Il Mattino martedì 26 maggio 2015 - 14:22   Ultimo agg.: mercoledì 27 maggio 2015 10:41

sabato 28 marzo 2015

Lo Stato e la camorra, Cutolo e Mancino: Amato racconta l’altra trattativa

Il giornalista: il tentativo fallì per il no della magistratura. Aufiero: non conosco il contenuto dei colloqui di Cutolo con i pm salernitani

Lo Stato e la camorra, Cutolo e Mancino: Amato racconta l’altra trattativa
C'è un'altra trattativa parallela a quella tra Stato e Mafia, che si svolge contestualmente in Campania e che a differenza di quella palermitana, gode della luce del sole. E' latrattativa Stato Camorra raccontata dal giornalista e scrittore Massimiliano Amato in"L'altra trattativa. La vera storia del fallito accordo Stato - camorra", libro presentato questo pomeriggio al circolo della stampa. A discuterne con l'autore Marco Cillo di Libera, Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, l'avvocato Gaetano Aufiero Presidente della Camera Penale di Avellino e Gianni Colucci giornalista de Il Mattino.
«Nel 1994 - racconta Amato - mentre monta l'onda dei pentiti, un gruppo di boss della camorra si inventa un'altra strada per prendere le distanze dall'organizzazione criminale: la dissociazione che, a differenza del pentimento, è la presa di distanza completa dalla vecchia vita senza chiamate di correità. Della vicenda si fanno carico due sacerdoti: l'ex cappellano del carcere di Poggioreale e un alto prelato molto noto all'epoca per le sue battaglie contro la criminalità organizzata, il vescovo di Acerra don Antonio Riboldi. Dietro questa operazione c'è la consulenza giuridica dell'avvocato Saverio Senese, difensore di Angelo Moccia il numero tre della Nuova Famiglia, il camorrista che di fatto cerca di portare a compimento questa operazione che si infrange contro il no della magistratura».
Figura chiave del fallimento di questa trattativa è l'allora Ministro dell'Interno Nicola Mancino, il cui volto si affaccia dalla copertina del libro. «Mancino – racconta Amato - prima decide di fare un'esplorazione della situazione, infatti manda in Campania il capo della polizia Vincenzo Prrisi, poi si accorge che la strada della dissociazione è impraticabile. Mancino diede parere negativo dopo essersi accertato che la richiesta di don Riboldi e di quanti si erano proposti per la trattativa, non era attuabile. Si mostra un po' più disponibile invece l'allora ministro della giustizia Giovanni Conso ma in quel momento, con i partiti e le istituzioni travolti dalle inchieste di Mani Pulite, l'unico corpo dello Stato che ha ancora una qualche legittimità è la magistratura e di fronte al secco no di quest'ultima la trattativa si arena».
Raffaele Cutolo in tribunale
Tutto parte con una notizia bomba data in tv da don Riboldi il 16 febbraio del '94 secondo cui 5mila mafiosi erano pronti a pentirsi. «Una delle caratteristiche di questa trattativa è che si svolge alla luce del sole, gode della ribalta mediatica mentre quella tra Stato e cosa nostra, che ha dato vita al processo in corso a Palermo, si sviluppa in silenzio. Di fronte al no della Procura distrettuale antimafia di Napoli, questi 5mila mafiosi si ridurranno ad uno solo. L'unico dissociato resta infatti Angelo Moccia che proprio in questi giorni ha finito di scontare il suo debito con la giustizia. In questo clima si inserisce anche una vicenda molto strana, un tentativo di pentimento di Raffaele Cutolo che in quel momento ha perso la sua guerra, la Nuova camorra organizzata è stata sconfitta dalla Nuova Famiglia. Cutolo fa trapelare la volontà di raccontare la sua verità ed inizia a riempire verbali di interrogatori. Una notte quando stanno per trasferirlo in una località protetta per porre in essere il suo passaggio tra i collaboratori di giustizia, si ferma. Ed è una strategia che negli anni successivi adotterà spesso».
Amato traccia le differenze tra quella trattativa e la più nota Stato-Mafia: «La trattativa di Palermo – dice - metteva in discussione equilibri importanti, veniva subito dopo la strage di Capaci, immediatamente prima della strage di via D'Amelio e resta l'ipotesi investigativa secondo la quale Borsellino sia stato ucciso proprio perché aveva capito.Quella campana invece era una trattativa molto più innocua, perché la camorra in quel momento era in una condizione di generale smobilitazione, i grandi capi come Pasquale Galasso e Carmine Alfieri si erano pentiti. Ma soprattutto perché la camorra si era trasformata, era diventata affare. Oggi infatti non ha più bisogno di trattare perché camorra, economia e politica in certe circostanze si sono fuse. La Campania è la regione dove il tessuto democratico è maggiormente a rischio e quindi mi auguro che per le prossime candidature alle regionali tutti i partiti, di centro sinistra e centro destra, applichino il codice etico, mettano in campo liste pulite perché la regione in questo momento, grazie ai fondi europei, è il più grande centro di spesa».
Un libro interessante per l'avvocato Aufiero, che è tra i difensori di Raffaele Cutolo. E proprio sull'ultimo capitolo dedicato al suo assistito avanza qualche perplessità: «credo che tra questa proposta di trattativa e la vicenda Cutolo ci sia solo una coincidenza temporale ma non sono collegate. Non ero presente ai suoi incontri con i magistrati salernitani quindi non ne conosco i contenuti, così come non conosco i motivi che abbiano portato Cutolo, eventualmente, a tornare sui suoi passi. So per certo che dopo alcune settimane di questi incontri, avvenuti in modo interlocutorio senza la presenza di un avvocato, furono interrotti nonostante fosse già stato predisposto il programma di protezione».
di Rossella Fierro
fonte: IlCiriaco.it

martedì 3 febbraio 2015

Franco Roberti (Dna): quella tra Cutolo e lo Stato è unica trattativa finora accertata

«Separazione tra carriere di polizia giudiziaria e servizi segreti per non minare credibilità delle indagini»




Ai media è sfuggito che il 4 novembre 2014 il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e il sostituto procuratore Roberto Pennisi si sono recati in audizione presso la Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti.
Nel post di mercoledì 21 gennaio ho dato spazio alle convinzioni di Pennisi sul vero, presunto o falso affondamento delle navi dei veleni a largo delle coste calabresi da parte della ‘ndrangheta. Il 22 gennaio ho trattato della drammatica ricostruzione della criminalità di natura ambientale e del ruolo di Cosa nostra e ‘ndrangheta che si inseriscono nel ciclo legale del trattamento dei rifiuti. Accade ovunque, anche in Piemonte e Lombardia, dove la ‘ndrangheta regna. Il 23 gennaio ho proseguito sulla falsariga con specifico riferimento alla provincia di Brescia perché, proprio ad essa, Pennisi riserva non poche riflessioni e non poche stoccate (si vedano link a fondo pagina).

Oggi si cambia registro e si passa a vedere quanto ha riferito Roberti su una domanda specifica che gli è stata posta dal presidente della Commissione, Alessandro Bratti (Pd) sui rapporti tra malavita organizzata e servizi segreti.

LA DOMANDA DI BRATTI

La domanda del presidente è molto articolata e vale la pena trascriverla: «Vorremmo capire quali sono le attività che state svolgendo e quali sono le vostre conoscenze rispetto al tema di questa collusione che c’è stata, secondo quello che riportano i giornali, tra organi di Stato, in particolar modo i servizi, e malavita organizzata, soprattutto in alcune situazioni che hanno visto questo Paese, o alcune sue regioni, in grande emergenza. Oggi ci sono anche importanti processi in corso.

Noi vorremmo capire se questi collegamenti hanno un loro fondamento o se, invece, sono frutto di una letteratura un po’ fantasiosa. Dalle segnalazioni che noi abbiamo non ci sembrano frutto di fantasie, ma, purtroppo, di situazioni assolutamente reali, che fanno parte magari della storia, ma su cui sarebbe proprio compito di una Commissione d’indagine, a questo punto, far luce. Vorremmo capire quali sono le attività che state svolgendo e quali sono le vostre conoscenze rispetto al tema di questa collusione che c’è stata, secondo quello che riportano i giornali, tra organi di Stato, in particolar modo i servizi, e malavita organizzata, soprattutto in alcune situazioni che hanno visto questo Paese, o alcune sue regioni, in grande emergenza.
Oggi ci sono anche importanti processi in corso. Noi vorremmo capire se questi collegamenti hanno un loro fondamento o se, invece, sono frutto di una letteratura un po’ fantasiosa. Dalle segnalazioni che noi abbiamo non ci sembrano frutto di fantasie, ma, purtroppo, di situazioni assolutamente reali, che fanno parte magari della storia, ma su cui sarebbe proprio compito di una Commissione d’indagine, a questo punto, far luce».

LA RISPOSTA DI ROBERTI

Roberti, al quale non si può non riconoscere uno stile franco, risponde senza reticenze e, anzi, ponendo a sua volta nuovi interrogativi fonti di riflessione. Prima, però, una sua premessa obbligata: «Vorrei capire bene che cosa si intende per collusioni, perché che i servizi abbiano rapporti con la malavita organizzata è normale, fa parte del loro lavoro. Il problema è che non venga violata la legge, se non nei limiti in cui la stessa legge istitutiva relativa ai servizi lo prevede».
IL VERO RISCHIO

Fatta la premessa, Roberti fa presente che il pericolo è un altro. «Il pericolo vero è un altro – dirà senza mezzi termini ai commissari presenti – e nasce dalla possibilità di soggetti appartenenti agli organismi di polizia giudiziaria di transitare senza soluzione di continuità negli organismi investigativi di informazione e sicurezza, cioè nei servizi segreti, con tutto il bagaglio di conoscenze investigative e giudiziarie che hanno acquisito nel corso del loro servizio di polizia giudiziaria.
Trasferire nei servizi queste conoscenze, che molto spesso attengono, e lo abbiamo verificato, con dati di indagine ancora coperti dal segreto, impiegare queste conoscenze segrete nel rapporto con la malavita, come spesso abbiamo verificato, è reato. Questo è inammissibile e mina molto spesso, ancora adesso, la credibilità e anche la tenuta delle indagini giudiziarie. Questo, secondo me, è il vero problema. Poi è chiaro che bisogna vedere caso per caso che tipo di collusioni e che tipo di reati si svolgono, certamente».
Poi, prima di tornare all’argomento, una piccola divagazione che poi tanto divagazione non è: «io mi sono occupato dell’unica vera trattativa consacrata in sentenze, ossia la trattativa per il rilascio dell’assessore Ciro Cirillo, sequestrato nel 1981 dalle Brigate rosse. La trattativa che si instaurò tra lo Stato, attraverso i servizi segreti e anche alcuni esponenti politici, e le Brigate rosse, con la mediazione di Raffaele Cutolo, è stata confermata da una sentenza definitiva dalla Corte d’appello di Napoli. Finora è l’unica trattativa vera Stato, mafia e brigatisti di cui si abbia conoscenza. Poi vedremo l’esito di altri processi, nonché delle altre e più attuali trattative».

IL DITO NELLA PIAGA

Sollecitato dal commissario Enrico Buemi che vuole conoscere l’idea del capo della procura nazionale antimafia sul modo in cui impedire il rapporto in continuazione tra polizia giudiziaria che si trasferisce ai servizi, Roberti risponde così: «Secondo me, dovrebbero essere due settori completamente diversi e impermeabili, o quantomeno bisognerebbe… ». E qui Boemi prova a concludere la frase con interrogativo incluso: «…pensare anche alla separazione delle carriere?». E Roberti non si lascia pregare: «Sì, alla separazione delle carriere o quantomeno a un periodo di purificazione, di “purgatorio”, per chi sta in polizia giudiziaria, in modo che non venga impiegato, per un dato periodo, prima di passare nei servizi, in attività investigative dirette».

Beh, non c’è che concordare con Roberti. Di più non si può aggiungere perché la parola passa al legislatore che, statene sicuri, farà orecchi da mercante…