venerdì 14 novembre 2014

'Il terrorista e il professore', il nuovo libro di Vito Faenza

SANTA MARIA CAPUA VETERE - Mercoledì 19 novembre, a partire dalle 18.30, si terrà la presentazione del libro di Vito Faenza, 'Il terrorista e il professore', presso la libreria Spartaco di Santa Maria Capua Vetere. Dopo il successo del primo romanzo 'L'isola dei fiori di cappero', dal 24 settembre è possibile trovare il nuovo lavoro del giornalista presso tutte le edicole e librerie. Il romanzo, ispirato a fatti realmente accaduti ossia il sequestro Cirillo e la trattativa con le Brigate Rosse e il professore Raffaele Cutolo, presenta un connubio tra malavita, camorra e politica, con una serie di intrecci che ne rendono la lettura appassionante.
Il set scelto dall'autore per questo romanzo è individuato in un carcere di massima sicurezza dove viene rinchiuso il capo della cosca, Don Vittorio, meglio conosciuto come il Professore. Una storia vera quindi ma liberamente romanzata che tratta tematiche scottanti e delicate quali la criminalità organizzata e la gestione della malavita; un romanzo che si appresta a diventare un vero e proprio best seller.

giovedì 2 ottobre 2014

Le T-shirt: «Piacere, sono di Ottaviano, il paese di Beneventano e Cappuccio. Non di Cutolo»

di GIOVANNA SALVATI
«Piacere, sono di Ottaviano. Il paese di Mimmo Beneventano e Pasquale Cappuccio». E’ la scritta sulla T-shirt che un gruppo di giovani ha lanciato contro la camorra, per cancellare per sempre un luogo comune: Ottaviano non vuole essere una città di camorra, non viole essere la città di Raffaele Cutolo.

«L’avvocato Pasquale Cappuccio ed il dottor Mimmo Beneventano sono per noi fari di legalità, esempi di forte responsabilità per tutti - spiega Luca Lanzaro -. Il biocidio della Terra dei Fuochi ha messo radici proprio alla fine degli anni ’70, i due eroi di Ottaviano sono stati i primi ad aver combattuto».


Ecco il perché dell’iniziativa delle magliette. «Vogliamo lanciare proprio questo messaggio, ne faremo una con il nome di Giuseppe Tornatore, il regista che ha raccontato solo il lato peggiore della nostra storia recente. Questa iniziativa, che non è l’unica, è nata da un gruppo di cittadini attivi».

Già centinaia le richieste di ricevere la maglietta, a gestire l’iniziativa sarà la Fondazione Mimmo Beneventano che potrà utilizzare il ricavato per incrementare il numero di borse di studio.

fonte: metropolis.it

domenica 28 settembre 2014

Fermato Marandino, gestì la latitanza di Raffaele Cutolo

Esponente di spicco nella Nuova Camorra Organizzata negli anni Settanta

Giovanni Marandino
Giovanni Marandino, 77 anni, noto quale esponente di spicco nella Nuova Camorra Organizzata negli anni Settanta e per aver gestito fino al maggio 1979 la latitanza del boss Raffaele Cutolo, è stato fermato dalla Polizia ad Albanella (Salerno). Nell'operazione sono state sottoposte a fermo, per disposizione della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, altre sei persone accusate di far parte di un clan camorristico di cui Marandino è considerato il capo.
L'ultimo arresto di Marandino risale al 2006 a Firenze, quando fu accusato di associazione mafiosa, usura ed estorsione. In quella circostanza, gestiva un clan nell'isola d'Elba. Le ipotesi di reato formulate nei riguardi di Marandino e degli altri sei sono associazione mafiosa, usura ed estorsione. Il clan - secondo gli investigatori - operava nella zona della Piana del Sele ed era attiva anche a Salerno e nell'agro nocerino.
Le indagini svolte dalla Squadra Mobile della Questura di Salerno sono cominciate nel dicembre scorso a partire da alcune estorsioni ai danni di imprenditori che per lavorare nella zona tra Eboli e Battipaglia, in provincia di Salerno, hanno subito ricatti e minacce. Da intercettazioni telefoniche e ambientali, e pedinamenti, gli agenti sono riusciti ad arrestare Ciro Casella, sorpreso a Capaccio (Salerno) con un'arma con matricola abrasa prima che si recasse assieme ad altri indagati a minacciare un imprenditore. Successivamente nella sua auto, a Salerno, è stato trovato un ordigno a base di tritolo. Nel corso della notte sono state eseguite anche numerose perquisizioni.

“Ricordi in bianco e nero”: libro su Cutolo

Presentato a Casoria (NA) un libro su Cutolo della giornalista Gemma Tisci; le lettere, scritti, la vita, la storia personale nella storia sociale

Raffaele Cutolo
Raffaele Cutolo nasce il 4 novembre del 1941 ad Ottaviano.  Gemma Tisci, molti anni dopo, nascerà nella stessa città che, come lei precisa, è stata segnata dalla “presenza” di Cutolo, il quale “aleggiandovi sopra”, non ha permesso alla sua città Natale, le possibilità sociali che dagli anni ’60 avrebbe potuto avere se non le si fosse stampata addosso la problematica legata alla NCO[1] e, se pure di riflesso, quella della NF[2]. Gemma Tisci ha un ricordo d’infanzia: si recava ad ascoltare dischi in un locale assieme alle amiche, in motorino, quando fu invitata a lasciarlo. Nel ripigliare il motorino e prendere la strada si ritrovò davanti un signore che le disse anche qualche parola. Tornando a casa rivide “il signore sconosciuto” in televisione. Era Cutolo, all’epoca latitante. Vera o falsa che fosse quell’esperienza nel riconoscimento, è pur certo che la giornalista di cronaca del Mattino Gemma Tisci ha avuto il passato ed il futuro “segnato” da quell’incontro e dall’essere vissuta su di un territorio noto per gli assassini e le guerre delle bande. Non stupisce quindi che, con l’intelligenza e la capacità sue proprie, abbia vissuto crescendo in conoscenza nel settore della criminologia e, forte delle lettere scambiate proprio con Cutolo e gli studi, le interviste fatte, abbia deciso di “dedicare” uno dei suoi libri a Cutolo. La presentazione del libro " Ricordi in bianco e nero - La vera testimonianza epistolare in diretta dalla cella del boss Raffaele Cutolo”- è avvenuta venerdì 26 settembre ore 17.30. Presso la biblioteca dell'istituto alberghiero A. Torrente. Via Duca d'Osta - Casoria NA.  Ha fare da presentatrice, l’insegnante Rosalia Marino, che ha potuto così presentare ai suoi allievi del “Progetto Sirio” (scuola serale per il 3° e 4° anno di ragioneria), un “pezzo di storia”. Drammatica e delittuosa quanto si vuole, ma pur sempre capace di aprire l’orizzonte della conoscenza su fatti e misfatti che hanno segnato la vita delle popolazioni della Campania –e non solo-, visto i rapporti stretti con i clan della Sicilia e gli interessi nazionali posti in gioco, ad esempio, con il caso Cirillo.[3] La Marino ha ricordato, nel corso dell’incontro, di avere visto assieme ai suoi allievi il film sul giudice Rosario Livatino[4]. Si disse al tempo che Cossiga l’avesse definito “il giudice ragazzino”- e non in senso [5], (poi lo stesso Cossiga, dodici anni dopo la sua morte, in una lettera ai genitori smentì che parlasse di lui), di avere commentato la figura di Salvo D’Acquisto e discusso molte delle questioni sociali che i giovani dovrebbero conoscere. In questo senso ha ringraziato la giornalista Tisci, la quale, nel corso della serata, con puntuale e precisa conoscenza dei fatti, anche risalenti ad anni in cui non aveva consapevolezza personale, ha permesso ai presenti la comprensione più chiara di eventi verso i quali la popolazione giovane d’Italia non può avere valutazione e giudizio. La “nostra” giornalista, che senza dubbio deve essere stata nel tempo della sua “esposizione” ai fatti, con i suoi articoli di cronaca, ben consapevole dei rischi chi si possono correre -si ricordi per tutti il giovane collega del Mattino di Napoli Giancarlo Siani - ha portato avanti con i suoi articoli e con i suoi libri la volontà di chiarire fenomeni complessi, come il bullismo.  Parlando di Cutolo ha rigcordato una sua frase: -“Cutolo è morto, adesso è rimasto solo Raffaele, un uomo che sta pagando le colpe commesse”, precisando che, soggetto anche al 41 bis, l’uomo in questione è vissuto lontano dalla società da anni, per cui, probabilmente, trovandosi oggi nelle strade di Napoli e nel traffico gli tremerebbero le mani come ad un vecchio. Cutolo, riferendosi al film “Il camorrista”, in una delle lettere scritte a Gemma dice:-“…Ho visto il film il camorrista giorni or sono, certo che è un falso totale, intriso di calunnie ecc. ecc. io con questo film mi sono preso due ergastoli perché i Giudici e i giurati vennero influenzati da questo film”- La storia di Cutolo fuorilegge comincia nel 1963, quando uccise (lo svolgimento dei fatti è controverso), un suo paesano. Condannato con un giudizio primario all’ergastolo, in appello ebbe ventiquattro anni di reclusione. La Tisci oggettivamente chiarisce:-“Divenne camorrista in carcere”. Ma non lo scusa per questo.  In quanto a Cutolo. Per lui “La giustizia è come una prostituta”. Strano personaggio, che non si è mai pentito ( -“ … quello che mi fa rabbia è che i giudici Calabresi hanno subito creduto a questi cialtroni, cosiddetti pentiti”- [6]),  cui ricorrono i politici -vedi il caso Cirillo-[7]  che pare sapesse dove fosse stato nascosto Aldo Moro (altro grande mistero della politica italiana), uomo di cui si comprende meglio la “sua” verità sia ascoltando la collega Gemma Tisci quando ne parla che leggendo il suo lavoro, nel quale si apprende di più anche sulla malavita organizzata, i suoi metodi, i suoi sistemi, i suoi uomini, il suo passato.  –“Una vera ecatombe, altro che guerra civile”.[8]
Raffaele Cutolo
affettuoso-
Libro da leggere. Ma, da stampare nella testa dei giovani  soprattutto questa frase, tratta da una lettera di Cutolo:-“Grazie a mia moglie Tina ho detto basta alla camorra, dal giorno in cui l’ho sposata nella Cappella del carcere Sardo dell’Asinara,[9](…) . Ragazzi! Non seguite i capi di organizzazioni criminali, perché sono solo una razza d’infami!”-
Bianca Fasano

[1] La Nuova Camorra Organizzata (conosciuta anche con l'acronimoN.C.O.) è l'organizzazione camorristica creata da Raffaele Cutolo, boss dei boss della camorra, negli anni settanta in Campania. Si ingrandì enormemente agli inizi degli anni ottanta coinvolgendo gli altri clan di camorra in sanguinose guerre. Fu considerata estinta negli anni ’80, con l’arresto dei suoi capo clan.
[2] La Nuova Famiglia, detta anche NF,  era una confederazione di clan creata da boss quali Michele Zaza, i fratelli Ciro e Lorenzo Nuvoletta ed Antonio Bardellino (affiliati a Cosa Nostra), e da altri capi-banda camorristi (Carmine Alfieri, Luigi Giuliano, Pasquale Galasso).
[4]Rosario Angelo Livatino (Canicattì3 ottobre1952 – Agrigento21 settembre1990) è stato un magistratoitaliano assassinato dalla Stidda. che aveva messo a segno numerosi colpi nei confronti della mafia, attraverso lo strumento della confisca dei beni.
[5]« Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno...? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un'autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l'amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta. »
[6]  Da una lettera alla moglie Tina.
[7] Alcuni esponenti della DC e rappresentanti dei servizi segreti chiesero la collaborazione di Cutolo
[8] -“Ricordi in bianco nero”. Pag. 15.
[9] Ma forse a merito del trasferimento,  nel 1982, l'attività di Cutolo e della NCO subisce un forte rallentamento. Intelligente volontà dl Presidente della Repubblica Sandro Pertini,  che chiese il trasferimento dal carcere di Ascoli Piceno (dove il detenuto Cutolo soggiornava in una stanza elegantemente arredata ed aveva due persone alle sue dipendenze. Assurdo). al carcere di massima sicurezza dell'Asinara, 

lunedì 15 settembre 2014

Conservava i segreti di Moro ma fu ucciso dai "pesciaroli"

Franco Giuseppucci, il "Fornaretto" diventato "Negro". Con la sua morte iniziò una lunga stagione di sangue

Negli anni Settanta, all'Alberone, si riunivano varie "batterie" di rapinatori, provenienti anche dal
Franco Giuseppucci detto "er negro"
Testaccio. Costoro affidavano le armi a Franco Giuseppucci, che le custodiva all'interno di una roulotte, parcheggiata al Gianicolo, che venne, però, scoperta e sequestrata dalle forze di polizia; arrestato per questo, "er Fornaretto", che quando avrà arricchito il suo curriculum criminale diventerà "er Negro", se l'era cavata con qualche mese di detenzione: la roulotte aveva un vetro rotto, difficile, dunque, stabilire chi fosse stato a nascondervi dentro le armi. Quelle sequestrate non erano le sole che Giuseppucci custodiva: scarcerato, patì il furto di un maggiolone Volkswagen, con dentro un altro "borsone" di armi, affidategli da Enrico "Renatino" De Pedis, che il ladro cedette a Emilio Castelletti, socium sceleris di Maurizio "Crispino" Abbatino. E a quest'ultimo si rivolse er Negro, per reclamarne la restituzione. Fu quella, per i due, l'occasione di conoscersi e di dar vita, con Renatino, a una propria "batteria", destinata a trasformarsi in "banda", quando decisero di sequestrare, nel 1977, il duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere. Da allora, la consorteria, che un ignoto cronista chiamò "Banda della Magliana", divenne sempre più forte, sino a sbaragliare ogni altra formazione criminale della Capitale. Ma trovò un punto di svolta quando er Negro, il 13 settembre 1980, fu ucciso a Piazza San Cosimato, a Trastevere, con un colpo di pistola, a opera di esponenti del clan rivale dei Proietti. Costoro, originari del quartiere romano di Monteverde, titolari di numerosi banchi del pesce e detti dunque i "pesciaroli", oltre che di alcune case da gioco, dediti all'usura e alle sommesse clandestine, vicini, soprattutto, a Franco Nicolini detto "Franchino er Criminale", a seguito dell'avvento della nuova potentissima organizzazione, avevano perso i privilegi che derivavano loro dal controllo del territorio, sicché si vendicarono su Giuseppucci. Provocazione micidiale cui seguì una vendetta sanguinosa: nei due anni successivi caddero sotto il piombo della Banda Enrico "er Cane" Proietti, Orazio Benedetti, Maurizio detto "er
Aldo Moro
Pescetto" Proietti e suo fratello Mario detto "Palle d'oro".

Tutto chiaro? Non proprio. Il killer del clan Proietti eliminò sì un elemento di primissimo piano della banda della Magliana, ma anche uno dei testimoni più importanti dei rapporti, in occasione del sequestro di Aldo Moro, tra delinquenza organizzata, apparati dello Stato e potere politico. La prematura morte del Negro può collocarsi dunque all'interno di un'inquietante sequenza di morti, violente o comunque sospette, apertasi nel maggio 1978, legate tutte dal medesimo filo rosso. Lo suggerisce il contenuto del borsello abbandonato su un taxi, a Roma, il 14 aprile 1979, e, in particolare, la scheda intestata "Mino Pecorelli (da eliminare)", in cui sono indicati gli indirizzi del giornalista e l'annotazione che avrebbe dovuto essere colpito "preferibilmente dopo le 19", nei pressi della redazione di OP; nonché l'altra importante annotazione: "Martedì 6 marzo 1979 causa intrattenimento prolungato presso alto ufficiale dei carabinieri, zona piazza delle Cinque lune, l'operazione è stata rinviata", contenente, tuttavia, un'indicazione incompleta: all'incontro fra Pecorelli e l'"alto ufficiale", cioè il colonnello dei carabinieri Antonio Varisco, si dice fosse presente anche l'avvocato milanese Giorgio Ambrosoli, curatore fallimentare della Banca Privata Italiana, di Michele Sindona, avvelenato con caffè al cianuro, il 20/3/86, nel carcere di Voghera.
Ebbene. Il 9 maggio 1978 viene ucciso Aldo Moro. Il 20 marzo 1979, viene eliminato, a Roma, il giornalista Carmine "Mino" Pecorelli. Nella notte fra il 12 e il 13 luglio 1979, viene ucciso, a Milano, Giorgio Ambrosoli. Tre mesi dopo, Joseph Aricò, il suo presunto killer, tenterà di evadere da un carcere americano, scavalcando una finestra, al nono piano. La mattina del 13 luglio 1979, sul Lungotevere, il colonnello dei carabinieri Antonio Varisco viene freddato con modalità singolari, rispetto a quelle solite dalle Brigate Rosse, che pure rivendicano l'attentato. Nel settembre 1980, è la volta, come si è visto, di Franco Giuseppucci e, nel febbraio 1981, di Nicolino Selis, ucciso dai suoi stessi sodali: i due avevano concorso all'individuazione del covo prigione dell'onorevole 
Moro. A Palermo, il 25 aprile 1981, viene ucciso Stefano Bontade, il quale si era contrapposto Pasquale Barra, Vincenzo Andraus e altri cosiddetti "killer delle carceri", trucidano Francis Turatello: aveva cercato di utilizzare a fini ricattatori quanto fatto per l'individuazione del covo prigione dell'onorevole Moro. Il 3 settembre 1982, a Palermo, viene eliminato il generale dei carabinieri, all'epoca prefetto della città, Carlo Alberto Dalla Chiesa e con lui la moglie, Emanuela Setti Carraro, e l'autista, Domenico Russo. Il 29 gennaio 1983, mediante l'esplosione di un'autobomba piazzata nelle vicinanze di Forte Braschi, sede del Sismi, viene ucciso il camorrista cutoliano Vincenzo "'o Nirone" Casillo: a nome dei politici nazionali con cui manteneva i contatti, aveva indotto Raffaele Cutolo a desistere dalla ricerca del covo-prigione di Aldo Moro. Il 28 settembre 1984, viene ucciso a Roma Antonio Giuseppe Chichiarelli, autore materiale del falso comunicato del Lago della Duchessa del 18 aprile 1978, e di altri interventi depistanti sugli omicidi Pecorelli e Varisco, come quello del borsello abbandonato in taxi. Sempre nel 1984, si registra il suicidio, a Londra, di Ugo Niutta, grand commis di Stato, già collaboratore di Enrico Mattei e amico dell'onorevole Antonio Bisaglia, deceduto alcuni mesi prima, cadendo da una barca. Una morte misteriosa quella del parlamentare veneto: chiamato pesantemente in causa dal parlamentare missino Giorgio Pisanò per i fondi elargiti a Carmine Pecorelli, proprio mentre il direttore di O.P. stava rivelando la grande truffa dei petroli, "13 milioni di barili di benzina spariti, mentre gli italiani vanno a piedi e le industrie sono in piena crisi energetica", e brutalmente scaricato dal proprio Partito, prometteva clamorose rivelazioni; alcuni anni dopo, il fratello sacerdote, molto impegnato, tra l'altro, a far luce sulla sua morte, sarà rinvenuto cadavere in un laghetto alpino del Bellunese, con le tasche piene di sassi; last but not least, il colonnello Antonio Varisco, subito dopo la morte di Carmine Pecorelli si era dimesso dall'Arma e, nel momento in cui venne ucciso, stava per andare a lavorare a Farmitalia, proprio con Ugo Niutta.
a Totò Riina e a Michele Greco, dichiarandosi favorevole all'intervento di Cosa Nostra a favore del presidente della Democrazia Cristiana. Il 12 maggio 1981, tocca a Salvatore Inzerillo, che del "principe di Villagrazia" aveva condiviso la posizione. Il 21 ottobre 1981, viene ucciso, a Roma, il capitano Antonio Straullu: oltre a occuparsi di destra eversiva, aveva firmato i rapporti investigativi sul borsello fatto trovare il 14 aprile 1979. Nel luglio 1982, a Milano, viene ucciso e bruciato all'interno del portabagagli di una macchina, Antonio Varone, fratello di Francesco Varone, che da lui autorizzato aveva collaborato con gli apparati dello Stato alla ricerca del covo prigione dell'onorevole Moro, sentendosi dire, a casa di Frank "tre dita" Coppola: "quell'uomo deve morire". Sempre nell'estate del 1982, nel carcere di Nuoro,

martedì 1 luglio 2014

Usarono Tortora per coprire il patto Stato-camorra

Diego Marmo
Il dottor Diego Marmo nella bella e importante intervista rilasciata a “Il Garantista”, sia pure trent’anni dopo, chiede scusa a Enzo Tortora; ci ricorda che la sua requisitoria si svolse sulla base dell’istruttoria dei colleghi Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, e “gli elementi raccolti sembrarono sufficienti per richiedere una condanna”; che per tutti questi anni ha convissuto con il tormento e il rammarico di aver chiesto la condanna di un uomo innocente; che fu a causa del suo temperamento focoso e appassionato che definì Tortora “cinico mercante di morte” e “uomo della notte”. Va bene, anche se si potrebbe discutere e controbattere tutto.


Per via del mio lavoro di giornalista al “TG2” mi sono occupato per anni del “caso Tortora” che era in realtà il caso di centinaia di persone arrestate (il “venerdì nero della camorra”, si diceva), per poi scoprire che erano finite in carcere per omonimia o altro tipo di “errore” facilmente rilevabile prima di commetterlo, e che si era voluto dare credito, senza cercare alcun tipo di riscontro, a personaggi come Giovanni Pandico, Pasquale Barra ‘o animale, Gianni Melluso. Ho visto decine e decine di volte le immagini di quel maxi-processo, per “montare” i miei servizi, e decine e decine di volte quella convinta requisitoria del dottor Marmo; che a un certo punto pone una retorica domanda: “…Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?”. Cercavamo…Anche Marmo, sembrerebbe di capire, cercava. E quali gli elementi di colpevolezza che emergevano durante il paziente lavoro di ricerca delle prove di innocenza? Non basta dire che la requisitoria del dottor Marmo si è svolta sulla base dell’istruttoria deli colleghi Di Pietro e Di Persia. Non basta.

Enzo Tortora
Il 18 maggio di ventisei anni fa Enzo Tortora ci lasciava, stroncato da un tumore, conseguenza – si può fondatamente ritenere – anche del lungo e ingiusto calvario patito. Chi scrive fu tra i primi a denunciare che in quell’operazione che aveva portato Enzo in carcere assieme a centinaia di altre persone, c’era molto che non andava; e fin dalle prime ore: Tortora era stato arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata, fatto uscire solo quando si era ben sicuri che televisioni e giornalisti fossero accorsi per poterlo mostrare in manette. Già quel modo di fare era sufficiente per insinuare qualche dubbio, qualche perplessità. Ancora oggi non sappiamo chi diede quell’ordine che portò alla prima di una infinita serie di mascalzonate.

Manca, tuttavia, a distanza di tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: “perché?”. Forse una possibile risposta sono riuscito a trovarla, e a suo tempo, sempre per il “TG2”, riuscii a realizzare dei servizi che non sono mai stati smentiti, e ci riportano a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Venne chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”.

Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ebbe un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e, tra gli altri, Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, “mai più ritrovato”.

Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli. Che l’arresto di Tortora costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. Quello è stato fatto lo si sarà fatto in buona o meno buona fede, cambia poco. Le “prove”, per esempio, erano la parola di Pandico, camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un cumpariello. Barra è un tipo che in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia per sfregio l’intestino…Con le loro dichiarazioni danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Questo in istruttoria non era emerso? E il sedicente numero di telefono in un’agendina, mai controllato, neppure questo? C’è un documento importante che rivela come vennero fatte le indagini, ed è nelle parole di Silvia Tortora, la figlia. Quando suo padre fu arrestato, le chiesi, oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra cosa c’era? “Nulla”. Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? “No, mai”. Intercettazioni telefoniche? “Nessuna”. Ispezioni patrimoniali, bancarie? “Nessuna”. Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? “Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri”. Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? “Nessuna”. Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. u che prove? “Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato”. Qualcuno ha chiesto scusa per quello che è accaduto? “No”.

Arriviamo ora al nostro “perché?” e al “contesto”. A legare il riscatto per Cirillo raccolto i costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale.

E’ in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”. Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Tortora è stato chiamato a rispondere per calunnia. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Il dottor Marmo dice di aver agito in buona fede, non c’è motivo di dubitarne. Ma la questione va ben al di là della buona fede di un singolo. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”. Da quella vicenda è poi scaturito grazie all’impegno radicale, socialista e liberale, un referendum per la giustizia giusta. A stragrande maggioranza gli italiani hanno votato per la responsabilità civile del magistrato. Referendum tradito da una legge che va nella direzione opposta; e oggi il presidente del Consiglio Renzi e il ministro della Giustizia Orlando approntano una serie di norme che vanno in direzione opposta rispetto a quanto la Camera dei Deputati ha votato qualche settimana fa.
30-06-2014

di Valter Vecellio

(da “Il Garantista”)

mercoledì 2 aprile 2014

RAFFAELE CUTOLO VIDEO INEDITO!



Materiale inedito sull'udienza a Napoli del 12 luglio 1984 del maxi processo contro la Nuova camorra Organizzata (NCO).
Raffaele Cutolo viene sentito dal giudice per confutare alcune affermazioni del pentito Giovanni Pandico detto che era stato sentito il giorno prima.
In fondo al video trovate i link per altri due brani del medesimo processo.

lunedì 24 marzo 2014

Caso Moro, ex poliziotto: "I servizi protessero la strage delle Br"

Nuove rivelazioni all'Ansa: Enrico Rossi, ex-ispettore di polizia, racconta la sua inchiesta

A disstanza di ben 36 anni dal rapimento di Aldo Moro potrebbe riaprirsi il capitolo sulla strage di via Fani e sul sequestro dell’allora Presidente della Democrazia Cristiana da parte dei terroristi delle Brigate Rosse.
Un caso che, in perfetto ed italico stile, non ha mai smesso di far discutere, in particolare sui tanti punti interrogativi che ancora aleggiano attorno ai fatti di Roma del 1978: dal sequestro alla Camilluccia alla detenzione, dalle trattative con la Banda della Magliana fino all’uccisione dell’uomo politico, un evento storico che ha radicalmente mutato la storia parlamentare e sociale del nostro Paese.
A raccontare nuovi ed inediti risvolti sul caso Moro è l’Ansa, cheha intervistato l’ex ispettore di Polizia, oramai in pensione, Enrico Rossi; l’ispettore racconta quando, era il 2009, una lettera anonima ricevuta da un quotidiano spostava l’attenzione degli inquirenti su un altro elemento presente in via Fani quella mattina: una motocicletta Honda.
La lettera, che sarebbe stata scritta da un’ex agente dei servizi segreti italiani, viene citata dal giornalista Ansa Paolo Cucchiarelli:
“Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente…”
Verificare una lettera anonima di questa portata, che cambierebbe il corso della storia recente d’Italia, diventa una priorità per l’ispettore Enrico Rossi: materiale da prendere con le dovute distanze, vuoi perchè la storia ufficiale (e processuale) racconta ben altro, vuoi perchè adistanza di oltre 30 anni (e con l’autore che, a suo scrivere, dovrebbe essere deceduto) diventa quasi impossibile verificarne l’attendibilità.
E così si crea immediatamente un classico giallo, i cui elementi base ci sono tutti: una lettera anonima post-mortem, le prove scomparse, i processi farseschi, l’indagine di un poliziotto in totale solitudine, lo spettro dei servizi segreti: roba da scheletri nell’armadio che tali devono restare.

Già negli anni ‘80 il boss camorrista Raffaele Cutolo aleggiava lo spettro dei servizi segreti italiani sul caso Moro e, in particolare, proprio sulla strage che portò al suo sequestro in via Fani, alla Camilluccia, dove l’uomo politico viveva. Già un primo riscontro della lettera l’ispettore Rossi lo ebbe nel primo nome: il colonnello del Sismi Camillo Guglielmi, che era in via Fani la mattina del 16 marzo 1978.
L’anonimo forniva anche gli elementi utili a rintracciare il pilota della motocicletta e dal 2011, dopo che misteriosamente la lettera capitò sul tavolo dell’ispettore di Polizia (allora in forze all’antiterrorismo), Rossi cominciò le sue indagini: secondo un testimone ritenuto molto credibile dallo stesso ispettore, l’uomo alla guida della moto quella mattina era a volto scoperto e aveva tratti del viso che ricordavano Eduardo De Filippo.
Poi, durante le indagini, la probabile svolta:
“Non so bene perché ma questa inchiesta trova subito ostacoli. Chiedo di fare riscontri ma non sono accontentato. L’uomo su cui indago ha, regolarmente registrate, due pistole. Una è molto particolare: una Drulov cecoslovacca; pistola da specialisti a canna molto lunga, di precisione. Assomiglia ad una mitraglietta. […] Per non lasciare cadere tutto nel solito nulla predispongo un controllo amministrativo nell’abitazione. L’uomo si è separato legalmente. Parlo con lui al telefono e mi indica dove è la prima pistola, una Beretta, ma nulla mi dice della seconda. Allora l’accertamento amministrativo diventa perquisizione e in cantina, in un armadio, ricordo, trovammo la pistola Drulov poggiata accanto o sopra una copia dell’edizione straordinaria cellofanata de La Repubblica del 16 marzo”. Il titolo era: “Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse”.”
afferma l’ispettore in pensione, che lamenta la mancata autorizzazione alle perizie sulle armi e all’interrogatorio del sospettato, che vive in Toscana. Consegnate le armi alla Digos la situazione sembra “congelarsi”. Dopo qualche tempo, capita l’antifona, Rossi nel 2012 va in pensione e, poco tempo dopo, viene informato della morte del suo sospettato e della distruzione delle armi senza alcuna perizia balistica, come invece aveva chiesto l’ex-ispettore. Scrive l’Ansa, confermando la morte del sospettato e la distruzione delle armi senza previa perizia:
“Il fascicolo che contiene tutta la storia dei due presunti passeggeri della Honda è stato trasferito da Torino a Roma dove è tuttora aperta un’inchiesta della magistratura sul caso Moro.”
Secondo l’agenzia stampa magistratura e Brigate Rosse concordano su un punto: la presenza effettiva della Honda blu in via Fani la mattina dell’attentato. Anzi, c’è qualcosa di più: l’ingegner Alessandro Marini, uno dei testimoni più citati dalla sentenza del primo processo Moro, fu l’unico civile a beccarsi dei proiettili, sparati proprio da quella moto di grossa cilindrata. Interrogato già il 16 marzo 1978 Marini disse che il conducente della moto era un giovane di 20-22 anni, molto magro, con il viso lungo e le guance scavate, che a Marini ricordò “l’immagine dell’attore Edoardo De Filippo”.
La raffica non lo uccise solo per un caso fortuito, ma il passeggero della moto (coperto da passamontagna) scaricò l’intero caricatore, perdendolo in terra. Quel caricatore fu ritrovato ma mai messo a raffronto con i tre mitra delle Br ritrovati poi in seguito, dai quali le sentenze affermano siano partiti i colpi sparati a via Fani quella mattina. Stesso discorso per le perizie balistiche, che tacciono numerosi particolari sui proiettili e sui bossoli.
I brigatisti Moretti e Morucci confermano nel corso dei processi proprio la presenza di una moto“che non era roba nostra”, ma negano ogni contatto con i servizi segreti o la criminalità organizzata che imperversava a Roma in quegli anni. Queste nuove rivelazioni non cozzano completamente con quanto affermato circa un anno fa da Ferdinando Imposimato.
Certo, forse tutto questo non è abbastanza per riaprire il caso Moro: certamente non è abbastanza per urlare al complotto dei servizi. Certo, questo si, è abbastanza per rendersi conto che sul caso Moro di chiarezza non ne è mai stata fatta. Probabilmente in maniera deliberata.

giovedì 13 marzo 2014

CAMORRA: LO MORO (PD), SOLIDARIETA' A GIORNALISTA MINACCIATO PAPPAIANNI

(AGENPARL) - Roma 12 mar - “Ho presentato un'interrogazione al Ministro dell'interno per chiedere che venga prestata protezione al giornalista de L'Espresso, Claudio Pappaianni”. Così la senatrice del Pd Doris Lo Moro in una nota stampa esprime la propria solidarietà al cronista minacciato. “Pappaianni nei suoi articoli ha messo in evidenza i rapporti tra quello che tele visivamente è conosciuto come il “boss delle cerimonie”, Don Antonio Polese e Raffaele Cutolo. Nella sua articolata inchiesta giornalistica Pappaianni scrive del «passato giudiziario imbarazzante del protagonista della trasmissione, il boss dei ricevimenti all'ombra del Vesuvio, Antonio Polese. Tra indagini per commercio di alimenti adulterati e abusi edilizi, fino ai rapporti con la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo»; ricorda, in particolare, che Polese è stato coinvolto nel maxiblitz contro la nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo del 1983, processato e condannato per favoreggiamento; implicato, insieme ad altri soci, nella compravendita del palazzo del principe di Ottaviano, il famigerato "Castello di Cutolo", poi finito nel 1991 tra i beni confiscati dallo Stato alla criminalità organizzata”.
Mercoledì 12 Marzo 2014 18:31 

martedì 11 marzo 2014

Il 'boss delle cerimonie' minaccia il giornalista dell'Espresso

INTIMIDAZIONI

Don Antonio Polese, il patron del locale di Ottaviano reso celebre dal reality sui matrimoni in un'intervista televisiva ha annunciato querele contro il cronista Claudio Pappaianni, colpevole di aver raccontato che su quel locale c'è l'ombra della camorra di Raffaele Cutolo
Don Antonio Polese, il boss delle cerimonie


Don Antonio Polese, il boss delle cerimonie, ha annunciato querele contro chi osa accostare il nome del suo locale di successo al padrino della Nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo. Lo ha fatto durante un'intervista a un'emittente campana (PiùEnne di Avellino).

Alla giornalista ha chiesto di non parlare del boss don Raffaè, ma poi lo ha fatto, credendo che la telecamera fosse spenta. Accusa “l'Espresso” e il nostro giornalista Claudio Pappaianni di scrivere falsità. E lo invita a produrre i verbali di cui parla nell' articolo pubblicato a febbraio scorso . «Se hanno la registrazione che lo dice lui (Cutolo, ndr), sennò la pagano cara perché questa è una cosa gravissima», è la minaccia rivolta a Pappaianni. E aggiunge: «Spenderò quanti soldi è possibile per ottenere...».

Alla cronista della tv locale racconta anche i suoi trascorsi giudiziari. E dice la sua sul Castello di Ottaviano (confiscato a Cutolo): «Ci volevano condannare per associazione a delinquere. Ma io ho sempre creduto nella giustizia e la giustizia è stata fatta per bene: ci hanno dato solo il favoreggiamento, perché era l'unica cosa che a noi ci toccava».

Il cerimoniere diventato famoso grazie al programma su Real Time è ferito dall'inchiesta di Pappaianni. Esclude qualunque ingerenza di Cutolo nella gestione dell'albergo. Anche se ammette che è quello il Palazzo del Festival della canzone napoletana, «è questo qua!», lo stesso cioè di cui parla il padrino della Camorra durante i colloqui in carcere con la nipote. Confermando così quanto scritto nell'inchiesta de l'Espresso.

Polese per difendersi arriva a sostenere che è tutta una montatura, dubita persino dell'esistenza del verbale nel quale sono stati trascritti i dialoghi del capo clan in carcere. Ma i verbali ci sono eccome, e sono allegati alla richiesta di arresto di Luigi Cesaro, il potente senatore di Forza Italia, che ormai da due anni è sul tavolo del giudice delle indagini preliminari. Il pm che l'ha inoltrata attende da quasi mille giorni, tempi biblici. All'interno di quel faldone anche i particolari delle vicenda dell'investimento milionario vantato da don Raffaele Cutolo.

Il boss delle cerimonie conclude l'intervista con la giornalista di PiùEnne con un'altra minaccia di denuncia: «se voi vi permettete di toccare questo argomento avrete la querela, ve lo dico già adesso, subito». Insomma, don Polese non ci sta. E si affida agli avvocati per difendersi nelle aule di tribunale. Intanto, dopo quel «la pagheranno cara», di Polese a Pappaianni è arrivata la solidarietà di tanti esponenti politici.
Su Twitter hanno espresso sostegno al giornalista il ministro della Giustizia Andrea Orlando, Nichi Vendola («solidale con Pappaianni giornalista dalla schiena dritta»), Francesco Nicodemo (Dalla parte di Pappaianni. Avanti» e Pina Picierno (Con Pappaianni e con tutti i giornalisti che continuano a informare e denunciare la camorra»).

I deputati di Sinistra e Libertà Gennaro Migliore e Arturo Scotto hanno invece inviato una nota con la quale esprimono «massima solidarietà nei confronti di Claudio Pappaianni, de “l'Espresso” e di tutti i giornalisti e le giornaliste che ogni giorno rischiano l'incolumità propria e dei propri cari per garantire a tutte e tutti noi il più alto livello di informazione possibile». A sostegno del cronista de “l'Espresso” anche Ossigeno per l'informazione, l'osservatorio guidato da Alberto Spampinato che raccoglie le storie e i numeri dei giornalisti intimiditi.

«Questa vicenda dimostra come in Italia le querele vengono considerate come sostituzione delle smentite o delle lettere di rettifica», osserva Spampinato, che aggiunge: «Sono considerata le uniche risposte possibili al lavoro del giornalista, e nelle ultime settimane abbiamo assistito a vari casi dalla Sicilia al Veneto, tutte vicende che mostrano l'allergia verso chi fa inchiesta giornalistica». Secondo i dati dell'Osservatorio tra il 2011 e il 2013 su 886 intimidazioni, 240 sono querele e richieste di danni pretestuose, senza fondamento. Tanto che sono state archiviate o il cronista è stato prosciolto.

giovedì 13 febbraio 2014

Sul castello del 'Boss delle cerimonie' c'è l'ombra di Raffaele Cutolo

Il padrino della Nuova camorra in carcere parla con la nipote di un investimento milionario. E una pista investigativa ipotizza possa trattarsi del Grand Hotel La Sonrisa, la location del fortunato programma di Real Time sui matrimoni da sogno napoletani

di Claudio Pappaianni

Felicia pretende dal boss la sala reale del Grand Hotel La Sonrisa, perché ha sempre sognato «un matrimonio da principessa». Per Rita e Paolo «una festa non è festa se non ci sono i frutti di mare crudi». Luca, invece, per la sua cerimonia di nozze al “castello” di Sant’Antonio Abate vuole «vedere lo spreco del cibo, perché a Napoli così si usa».

Quando lo scorso 10 gennaio è andata in onda la prima puntata del “Boss delle cerimonie” su RealTime, in tempo reale è montata pure la polemica sui social network. A cominciare da chi si è indignato per quella rappresentazione stereotipata dei “matrimoni della tradizione napoletana”, come recitava lo spot della trasmissione poi cambiato in corsa. La produzione ha replicato sottolineando che nel loro format non c’è nulla di inventato. Un Grande Fratello ai fiori d’arancio.

D’altronde, pure “Reality” di Matteo Garrone, il film vincitore del Grand Prix a Cannes nel 2012, cominciava con un fastoso matrimonio girato non a caso a “La Sonrisa”: una scena grottesca e sfarzosa di abiti scintillanti e divi in elicottero. A RealTime, intanto, si fregano le mani per il boom di ascolti: con il 4,4 per cento di share nell’ultima puntata e quasi il 4 di media, “il boss delle cerimonie” è la trasmissione più vista del canale dopo “Back Off Italia”. Numeri che non bastano a chi, anche attraverso interrogazioni parlamentari, ha ricordato il passato giudiziario imbarazzante del protagonista della trasmissione, il boss dei ricevimenti all’ombra del Vesuvio, Antonio Polese. Tra indagini per commercio di alimenti adulterati e abusi edilizi, fino ai rapporti con la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Insomma, non proprio un esempio da esportare.

Polese, coinvolto nel maxiblitz contro la Nuova camorra organizzata del 1983, fu processato perché ritenuto, insieme ad altri tre soci, implicato nella compravendita del Palazzo del Principe di Ottaviano, il famigerato Castello di Cutolo confiscato nel 1991 dallo Stato, dove don Raffaè teneva i suoi summit. A gestire l’operazione era stata la Immobiliare Il Castello, di cui oggi risulta amministratore unico Adolfo Greco, imprenditore che, dopo il maxiprocesso, fu pure coinvolto nell’affaire Cirillo (l’ex assessore regionale della Dc rapito nel 1981 dalla Brigate Rosse, ndr): aveva accompagnato nel carcere di Ascoli il funzionario del Sisde Giorgio Criscuolo, per le trattative intavolate con il boss per il rilascio del politico campano. Un altro socio era Agostino Abagnale, nipote di Alfonso Rosanova, ritenuto il cassiere e il riciclatore di Cutolo: era il ras di Sant’Antonio Abate, proprio il comune dove sorge “La Sonrisa”.


Dal reality al thriller. «Ai piedi del Vulcano sorge un luogo da favola dove il tempo sembra essersi fermato», recita la voce fuori campo che apre la finestra su ogni nuova puntata del “boss delle cerimonie”, tra il luccichìo delle paillettes e i tacchi dodici, la gigantografia di Mario Merola e le immagini della suite dove ha dormito Sofia Loren. E il tempo deve essersi fermato pure per Raffaele Cutolo, quando apre lo scrigno dei suoi ricordi durante un colloquio in prigione con la nipote Roberta, la figlia del primogenito del boss assassinato nel 1990. Il colloquio, come consuetudine per chi è sottoposto al regime di carcere duro del 41 bis, è videoregistrato: un altro reality, stavolta tra le mura del penitenziario. Siamo nel 2010. Ironia della sorte, quel giorno è un 10 gennaio: come la data delle prima assoluta in tv del “boss delle cerimonie”. Roberta racconta al nonno di suo fratello, rimasto senza lavoro. Il boss, irrequieto, la indirizza «dall’avvocato Cesaro di Sant’Antimo che è diventato importantissimo… e mi deve tanto… faceva il mio autista, figurati!».

Gli atti finiscono nel corposo fascicolo su cui si fonda la richiesta di arresto per Luigi Cesaro, Giggino ’a Purpetta, il deputato amico di Berlusconi che in quei giorni è presidente della Provincia di Napoli. Un’istanza da due anni ancora nelle mani di un gip del Tribunale di Napoli.

Quel giorno, nel carcere di Voghera, il dialogo non si limita, tuttavia, al solo nome di Cesaro: «Io vorrei uscire un paio di mesi per mettere a posto a te e a Raffaele. E anche a Mauro, per l’amor di Dio!», è lo sfogo del padrino, che mai come in quel momento appare come un animale ferito rinchiuso in una gabbia. «Potrei fare mille e mille cose. Vedi, c’è una località dove comprammo un vecchio rudere spagnolo, 700 milioni no?… Adesso vale sessanta miliardi (di lire, ndr). Eravamo quattro soci, no… Tre stanno lì… Dove fanno il festival della canzone…», aggiunge. «A Sanremo?», chiede la nipote a don Raffaè. Cutolo fa cenno di no con il capo, poi pronuncia una parola impercettibile. 

Quale è l’investimento del grande capo camorrista sfuggito alle confische? Un’ipotesi investigativa porta dritto al Grand Hotel La Sonrisa, la location del “boss delle cerimonie”, finito sotto sequestro tra il 1984 e il 1989 perché ritenuto il frutto di attività illecite legate all’organizzazione cutolianea.

Anche il riferimento al festival canoro pare portare al castello prediletto dalle coppie campane che convolano a nozze. È lì infatti che per trent’anni, fino al 2012, si è celebrato un appuntamento fisso con la canzone napoletana, trasmesso pure da RaiUno. I soci della Sonrisa spa - quattro milioni di fatturato nel 2012 per 41mila euro di utile – sono effettivamente tre, come ricorda Cutolo. E, a quanto risulta a “l’Espresso”, a trasformare quel rudere nel castello spagnoleggiante di oggi sarebbe stata la società “Il Castello”, la stessa che gestì la compravendita del maniero di Cutolo a Ottaviano finita sotto inchiesta anni fa.

“L’Espresso” ha provato a parlarne direttamente con don Antonio Polese ma il suo genero, Matteo, direttore della Sonrisa, ci ha risposto che «in questi giorni sta poco bene ed è cardiopatico: meglio evitare». Ce n’è abbastanza per alimentare l’ennesimo mistero intorno alla leggenda del padrino della Nuova camorra organizzata, che custodisce i suoi segreti da trent’anni in isolamento volontario nella cella: non vuole parlare con nessuno, nemmeno per la socializzazione concessa anche nel carcere duro.

Il servizio sull'Espresso in edicola

venerdì 10 gennaio 2014

Un'altra vita. La verità di Raffaele Cutolo.

Un'altra vita. La verità di Raffaele Cutolo.

RECENSIONE - Nel libro "Un'altra vita" di Francesco De Rosa, del 2001, con prefazione del vescovo Raffaele Nogaro, si parla della vita di Raffaele Cutolo ma anche della sua conversione, del modo in cui il suo spirito è cambiato, riservatamente, senza clamori e senza sbandierare pentimenti tardivi ed interessati.


Articolo a firma di Gaetano Ferrara per Conversione.org

Cutolo ha trascorso un'intera vita in prigione. A capo della NCO (Nuova Camorra Organizzata) che
Raffaele Cutolo con la moglie
Annamaria Iacone
aveva fondato, fu protagonista di vicende criminali nel decennio che va dagli inizi degli anni '70 agli inizi degli anni '80, prima che la sua organizzazione si sfaldasse. La fine della NCO è riconducibile a tre diverse cause interdipendenti: a) il venire meno dell'appoggio politico di cui Cutolo godeva ai tempi della reclusione nel carcere di Ascoli Piceno dove poteva beneficiare di ampi privilegi (l'appoggio politico venne a mancare dopo la liberazione di Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse grazie proprio alla mediazione di Cutolo. Secondo una tesi riportata nel libro, si preferì ridurre Cutolo al silenzio rendendolo inoffensivo, disponendo il suo trasferimento nel carcere di massima sicurezza dell'Asinara, provvedimento fortemente voluto dall'allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini); b) i duri colpi ricevuti sul fronte giudiziario in seguito alle rivelazioni dei pentiti (che proliferarono dopo il trasferimento di Cutolo nel carcere di massima sicurezza dell'Asinara) con inchieste che portarono al maxi-blitz del 17 giugno 1983 (in cui fu coinvolto anche Enzo Tortora); c) sul piano prettamente militare, il conseguente successo della Nuova Famiglia, organizzazione camorristica alleata della mafia siciliana che contendeva alla NCO il controllo del territorio.
La storia che si narra nel libro è per molti versi esemplare. Si tratteggia il profilo del capo di una organizzazione criminale spietata, agguerrita, che era giunto a divenire un interlocutore del potere politico e che poi, nella fase discendente della sua parabola - in seguito al suo matrimonio con Immacolata Iacone celebrato all'Asinara - giura sull'altare di lasciarsi per sempre alle spalle il passato e questa sua promessa sembra riuscire a vincolare la sua anima in eterno.
«[...] un uomo vero deve affrontare le colpe del suo passato con dignità e coraggio. La conversione deve essere dentro al proprio animo e si deve soffrire, anche per le tante colpe commesse da altri sulla mia pelle e sul mio animo. Il pentimento vero deve essere soltanto con Dio: giudice di tutti i giudici. Se non avessi creduto sempre e immensamente in Dio, già sarei morto. Gesù in croce è la vera cattedra di vita. E poi, monsignor Nogaro, a cui io voglio un bene dell'animo, ha sempre detto che la speranza deve essere invincibile.»
(Brano attribuito dall'Autore a Raffaele Cutolo, perché in corsivo nel testo, pp. 141-142)
Fu proprio Raffaele Nogaro, vescovo di Caserta, ad assisterlo ed a seguirlo in questo percorso di rinascita spirituale. Il vescovo, interpellato dall'autore del libro, accenna alla conversione di Raffaele Cutolo ed approfondisce il tema della differenza che esiste tra la conversione spirituale e il "pentimento" giudiziario di tanti ex-criminali.
«L'uomo convertito, soprattutto l'uomo che si trova in carcere, è colui che cambia il cuore. Il pentito è invece colui che cambia soltanto politica, colui che è alla ricerca dell'interesse personale e di quello del suo gruppo e difende comunque la sua vita accusando gli altri dei suoi crimini. Il convertito è, invece, colui che ha l'anima nuova, che, secondo un concetto cristiano, segue la volontà di Dio e quindi cambia consuetudini, modi di pensare e comportamenti. Cambia quella vita che prima poteva essere ambigua, discutibile e che invece ora vuole essere una vita di testimonianza, retta, morale... cristiana»
(Parole di Raffaele Nogaro, riportate dall'Autore, p. 181)
«Chi è convertito cerca di non fare mai del male ai suoi fratelli perché la conversione non è semplicemente un atto a senso unico, un guardare la volontà di Dio, ma è un atto completo e riguarda tutta la morale umana e lo spirito umano. Cioè è una volontà di compiere il bene a ogni costo, quando costa anche fatica, proprio perché la conversione è una nascita nuova, un cambiamento di mentalità, di modo di vedere le cose e, soprattutto, una volontà nuova a fare del bene dovunque, comunque e sempre, contro quella furbizia, quella mercanteria spirituale che potrebbe, invece, essere il carattere del pentito, di colui che cerca il suo interesse.»
(Parole di Raffaele Nogaro, riportate dall'Autore, p. 182)
Riflettendo poi sul personaggio Raffaele Cutolo e sulla sua conversione, il vescovo Nogaro passa al nocciolo della questione:
«Io direi con la mia fede [...] che l'uomo è sempre un prodigio, ma un prodigio di bene. Forse ancora oggi non si riesce a pensare che un Cutolo, un uomo così famoso nel campo di un particolare stato di vita quale può essere quello del crimine, abbia avuto la forza interiore, la ricchezza mentale di diventare un nomo nuovo, di grande valore spirituale. A mio giudizio, Cutolo oggi è un uomo che vive la dimensione dello spirito nella forma più ampia. Questo dimostra che l'uomo è sempre in stato di grazia anche se manca; anche se in un periodo della sua vita, più o meno lungo, cede a ogni forma di tentazione, può sempre recuperare, può tornare completamente nuovo. Veramente l'uomo è colui che può nascere di nuovo. Un santo dice che il cristiano è colui che impara a diventare giovane. In questo momento io dico che Raffaele Cutolo, proprio per le tante sofferenze che subisce, forse non si sente diventare giovane, ma ha una sensibilità morale, una coscienza talmente libera per cui si può dire che oggi è più giovane di quando è entrato in carcere... perché si è convertito.»
(Parole di Raffaele Nogaro, riportate dall'Autore, p. 183)
Il tema fondamentale del libro è proprio questo cambiamento nell'animo di Raffaele Cutolo. E' ancora un boss della camorra che vuole restare fedele fino alla fine col suo personaggio oppure è un uomo rinato che desidera espiare sulla propria pelle e sommessamente le proprie colpe, rifuggendo dalla tentazione di avere una vita facile, una nuova esistenza, semplicemente richiedendo di entrare nel programma di protezione previsto per i "pentiti"?
La perplessità che suscita il libro è proprio questa. Ci si può convertire senza "pentirsi", nell'accezione giudiziaria del termine?
La risposta risiede nel cuore di ogni uomo.
Noi lettori possiamo o meno esprimere un giudizio su questo tema ma è doveroso per ognuno riflettere sul cambiamento che c'è stato nell'animo di Raffaele Cutolo, il capo di una organizzazione criminale responsabile di reati gravissimi e delitti efferati che riscopre la scintilla che continuava ad ardere, profondamente, nel suo animo ed essa innesca il fuoco della sua conversione e della sua rinascita spirituale.
E' lecito nutrire diffidenza sul percorso di crescita interiore narrato nel libro di De Rosa, tuttavia le parole del vescovo Nogaro, persona di alta statura spirituale ed umana, devono predisporci alla fiducia; ci presentano il percorso tratteggiato nel libro come credibile e degno di considerazione.
Se escludiamo due brevi periodi di latitanza, Raffaele Cutolo è in carcere quasi ininterrottamente dal 1963. E' nato nel 1941.

Cerchiamo di giudicare la sua vicenda tenendo presente due fatti fondamentali. La prima considerazione è in relazione alla recentissima scelta di papa Francesco di eliminare l'ergastolo per il territorio che ricade sotto la giurisdizione dello Stato del Vaticano probabilmente perché esautora la funzione stessa della detenzione che dovrebbe essere finalizzata alla rieducazione di colui che è in carcere con la prospettiva di rendere possibile, un giorno, il suo reinserimento sociale. La legislazione dello stato italiano potebbe prendere esempio da questa scelta motu proprio di papa Francesco.
La seconda considerazione è in rapporto alla petizione online lanciata del centro Don Peppe Diana per la liberazione di Cutolo e l'applicazione di misure alternative al carcere. E' indicativa la circostanza che sia stato proprio un coordinamento anticamorra, ispirata all'azione ed al pensiero di un sacerdote ucciso dalla criminalità organizzata per il suo impegno a favore della legalità, a promuovere questa iniziativa dal carattere umanitario.
Quando questo articolo è stato pubblicato, Raffaele Cutolo ha quasi 73 anni e ne ha passati 50 in carcere e da 21 anni è in regime di 41-bis, il carcere duro.
Comprendiamo le perplessità ed il dolore che l'eventuale applicazione di misure alternative al carcere possa generare nell'animo dei familiari delle vittime di Raffaele Cutolo e dell'organizzazione criminale della quale era ai vertici, tuttavia non perdiamo mai di vista la prospettiva cattolica: ogni uomo ha il diritto di rinascere, in qualsiasi momento, se vive una conversione vera, autentica, dopo aver pagato il suo debito con la giustizia. Non sappiamo se il debito con la giustizia Cutolo lo abbia pagato sufficientemente tuttavia in Italia, probabilmente, nessuno è stato in carcere quanto lui.