Si può parlare, senza aprir bocca. Si può comandare o minacciare, senza aprir bocca. Lo sanno bene quelli che vivono nei quartieri-Stato dove la camorra ha cambiato non solo le regole di vita, ma anche quelle della comunicazione, piegandole – le une e le altre – alle proprie sporche esigenze. Chi abita alle latitudini della
Bestia capisce presto come decifrare i segnali impercettibili del linguaggio invisibile dei clan. Un linguaggio d’amore e morte. Un linguaggio fatto di gesti, di sguardi, di una grammatica del potere criminale che gli investigatori hanno dovuto, a loro volta, imparare a decifrare per intercettare i messaggi della malavita, per sabotarne piani e per stroncare l’evoluzione della specie (mafiosa). Il bacio, ad esempio. Quello che Raffaele Cutolo-Ben Gazzara, nel film “Il camorrista”, stampa sulle labbra del
picciotto che lo ha tradito ha il significato di una sentenza capitale, una sentenza inappellabile. Quello che un affiliato agli
scissionisti ha rubato, invece, a Daniele D’Agnese – piccolo
kapò di Secondigliano – davanti alla Questura di Napoli (8 giugno 2011) ha tutt’altro sapore: è un invito
a non mollare, a non lasciarsi travolgere dai dubbi e dai timori. A diradare la nebbia della paura della galera. A non cedere alla tentazione di pentirsi. Quel bacio è un’assicurazione sulla vita e un impegno di continuità. Così com’era un impegno di continuità nella gestione del potere criminale il gesto di Carmine Alfieri
(nella foto a destra), vecchio capocamorra degli anni Ottanta, di portare con sé una coppola rossa al momento dell’arresto. Quel copricapo stretto tra i pugni ammanettati aveva un solo scopo: tranquillizzare i
soldatidella famiglia e ribadire che il capo sarebbe rimasto lui, anche in carcere. Che poi Alfieri abbia deciso, di lì a qualche mese, di iniziare a collaborare con la giustizia, raccontando vent’anni di orrore ai magistrati, è un’altra storia. Ci sono poi le azioni, i segni che vengono affidati non a un singolo momento ma alla memoria. Nel mondo della camorra uno spazio importante, in questa direzione, l’hanno conquistato i tatuaggi: la famiglia Amato, fondatori del clan degli
scissionisti, ha come simbolo uno scorpione perché è il segno zodiacale del capoclan, Raffaele
’o spagnolo. I giovani secondiglianesi che trafficano cocaina ce l’hanno marchiato sui bicipiti o, molto più frequentemente, sull’avambraccio, e qualcuno, raccontano gli investigatori, se l’è fatto disegnare finanche sulla targa dell’auto, a dimostrazione imperitura della fedeltà al capo e di senso di appartenenza. In economia, tutto questo si chiamerebbe
brand, ma questo i camorristi non lo sanno e usano mezzi un po’ più primitivi per far passare l’idea. Regalando un Rolex Daytona e un motorino Sh ai nuovi affiliati, quelli che hanno deciso di entrare nella
chiesa con la speranza di poter diventare, un giorno, killer o capopiazza. Un capopiazza come Paolo Gervasio, soprannominato
zio Paolo, potente e spregiudicato broker del narcotraffico sulla rotta Barcellona-Napoli. Un tipo visionario, che – raccontano le indagini della Dda – aspirava a diventare il
re della cocaina a Napoli tanto da farsi
scrivere su un muro, a pochi metri dai depositi di droga del suo gruppo, a caratteri cubitali:
Zio Paolo = Pablo Escobar. Un delirio di onnipotenza che ha messo gli uomini del nucleo investigativo di Castello di Cisterna e gli
007 dei servizi segreti civili sulle sue tracce lungo una campagna di caccia che si è conclusa con l’arresto inevitabile di
zio Paolo.Spiega un investigatore: “Quella frase era un po’ come un’iscrizione su un monumento: era ammonizione per i nemici (perché zio Paolo poteva diventare sanguinario come il suo idolo colombiano) e incoraggiamento per gli amici (a non temere alcunché perché c’era lui a proteggerli)”. Quell’iscrizione è diventata la frase finale sui titoli di coda della sua assurda vita da trafficante di morte. Navigando su
Google street view ancora oggi si possono notare, dalle parti di corso Secondigliano, slogan inneggianti alla faida tra la potente famiglia Di Lauro e gli
spagnoli di Raffaele Amato (“Il leone è ferito, ma non è morto”, un chiaro riferimento al boss
Ciruzzo ’o milionario, condannato a trent’anni di carcere per droga, o ancora “Benvenuti alla scissione”). Si tratta di messaggi cifrati, che soltanto i
picciottiriescono a interpretare. È una litania che vola sopra la testa dei passanti, che si disperde nell’aria senza bisogno di onde elettromagnetiche e sintetizza, ben più dei 160 caratteri di un sms, che qualcosa sta cambiando da quelle parti o che qualcosa è già cambiato. Come quando una mano anonima, armata di una bomboletta spray, segnò sul metallo arruginito di una vecchia saracinesca: “Cosimo e Vincenzo”. Due nomi come tanti, altrove, ma non in quel luogo, non in quel tempo. Cosimo e Vincenzo sono i figli di
Ciruzzo ’o milionario e quel messaggio indicava, a mo’ di colonne d’Ercole, che quello era territorio sotto il protettorato del clan. Ultimamente si è favoleggiato, invece, sui significati nascosti della (questo sì, strana) coincidenza che accomuna un po’ di latitanti arrestati negli ultimi tempi: vestono tutti lo stesso tipo di maglia, con su impressa le facce ribelli e maledette di James Dean e di Steve McQueen. Qualcuno ha ipotizzato che si tratti di una informazione cifrata, anche se gli stessi investigatori non sono riusciti, ancora oggi, a darsi una risposta convincente. Cos’è? Un invito a continuare con la vita spericolata? È una divisa sociale del clan? E che c’entrano gli attori? Di certo c’è solo una cosa: non portano bene a chi le indossano.